Cronistoria a lieto fine di un matrimonio concordato, preparato e infine celebrato

Questo simpatico racconto ci è stato inviato dal nostro cliente Vincenzo D'Antonio di Napoli.

Consapevoli, non lo erano. No, diciamo la verità, né la sposa, né lo sposo potevano dirsi consci di quanto stava loro per accadere. Combinato. Ecco cos’era, un matrimonio combinato, secondo la peggiore tradizione delle nozze apportatrici di interessi e non foce di perenni amori e di reiterate, affettuose moine. E nei due paesini il chiacchiericcio, oggi che finalmente il gran giorno era arrivato, era fitto ed intrecciato. Le nozze si sarebbero celebrate a casa dello sposo, ad Atripalda, una casa bellissima, un maniero più che una casa, con una cantina più museo che cantina; che le volte affrescate c'erano, e poi tante botti, ma quante! Lo sposo proveniva da una famiglia nobile ed altolocata, vantava lignaggio da tre secoli. La sposina proveniva da un paesino della pianura casertana, Pontelatone, là dove il pigro fiume Volturno consuma le sue ultime anse prima di confondersi alla foce con un mare Tirreno che, da quelle parti, aveva vissuto stagioni molto migliori qualche millennio addietro, quando era Orazio a cantare le lodi del litorale domizio. Il pettegolezzo era incontenibile, le molte persone assiepate nel cortile della casa dello sposo, erano lì a trasmettersi le poche notizie certe e a provare a farsi vicendevolmente validare le incerte come una carta del mazzo cerca l’altra a reciproco puntello per erigere l’effimero castello. “E’ giovanissima, proprio una creatura, e di razza bianca “. “Scusate, perché, mo’ facciamo i razzisti con questo discorso della razza bianca, pure lo sposo è giovanissimo e di razza bianca, se è per questo”. “Vi sto dicendo che è proprio una creatura: è giovanissima, come vi devo dire, è appena nata, e già la portano a nozze!”. Si intromise un signore rubicondo e gioviale che, con l’aria di dipanare dubbi e svelare cose che, mbè, proprio non conveniva dire ai primi due capitati a tiro, comunque, benevolmente così parlò: “E’ vero quello che dice la zia, la sposa è bianca bianca e giovane giovane. Sembra una palla, è nata verso mezzogiorno dopo un parto laborioso e complesso, al quale hanno partecipato in tanti, ché la levatrice da sola non ce la poteva fare. Non hanno lavorato di forcipe ma con le mani, sì con le mani, hanno eseguito il più fiero ed abile dei gesti, delicatissimo: la mozza!”. “E che è la mozza, l’avranno mica decapitata !?! ma che state dicendo, ma ci volete far mettere paura o ci volete dire che l’asino vola ?”, così le due donne all’unisono insorsero contro l’uomo bonario ed ammiccante che, comunque, la verità l’aveva detta. “E già, mo’ danno in sposa allo sposo una creatura di un giorno a forma di palla e bianca bianca, che allora, per essere di questo bianco di porcellana come stanno dicendo, può essere pure che non sta in salute”. “No, no, quella sta in salute, eccome se ci sta in salute, è stata allattata con il latte migliore che esiste, e che esiste solo dalle parti sue dov’è nata, il latte di bufala. E che latte, signori miei, dovreste vederlo, che al confronto quello delle vacche è acqua fresca, è!”. “ Ma pure lo sposo è giovane, è un signorino bello bello che mo’ fa quattro anni. Io l’ho visto crescere e maturare” cominciò a raccontare un altro signore che si era intromesso nella conversazione, “ me lo ricordo quando lo si concepì. Dai vigneti fiano più belli, presero i grappoli più belli e con tutte queste ceste piene di questi grappoli così belli, ogni chicco d’uva una lucentezza, vennero qua, vedete proprio qua dietro” e così dicendo, con il dito indice della mano destra, che sporgeva dal polsino immacolato di una camicia bianca, indicò il luogo deputato alla prima fase della lavorazione delle uve nell’azienda vitivinicola Mastroberardino di Atripalda, retrostante il cortile dove si erano raccolti gli invitati ed i curiosi, allegramente frammischiati, in attesa dell’arrivo della sposa. “ Lo seguimmo attentamente ed amorevolmente, ché così il papà voleva e ci teneva e ci tiene per sta creatura in un modo eccezionale “. “Non dite così perché i figli sono tutti uguali e un padre li vuole bene a tutti allo stesso modo e non si mette a fare a uno sì e a uno no, e non sta bene neanche che queste cose uno le pensa”. “Signora cara, ma che state dicendo e che avete capito, io non ho detto che il papà vuole bene solo a sta creatura e agli altri no. Solo che, come voglio dire, non mi so spiegare, a questo qua ci teneva l’accortenza”. “L’accortenza ? E che significa, scusi questa parola ?” chiese un signore molto distinto e molto elegante che aveva ascoltato tutta la conversazione, a volte però facendo finta di distrarsi per mantenere il suo contegno di invitato importante. Veniva appositamente per questo matrimonio dall’Altitalia e parlava con un accento tutto forestiero. E allora un giovanotto locale, istruito, si intromise per dirimere la questione lessicale e disse.” Accortenza vuole dire quando state accorto ad una cosa ed accorto vuol dire che non vi distraete neanche per un momento, che mentre fate la tale cosa e la fate bene e con attenzione, state però già pensando alla cosa più conveniente da fare dopo, sempre per il bene della creatura, questa è l’accortenza, caro signore forestiero”. “Ma che forestiero, ma che vi credete, io da Bergamo vengo, mica dall’altro emisfero !”. “Eh, ho capito, venite da Bergamo, e siete forestiero, bene accetto e questa è casa vostra, ma sempre forestiero siete e certe cose non le potete capire. Ma perché, scusate, a Bergamo conoscono la sposa ?”. “Ma se neanche voi la conoscete !” aggiunse il distinto signore bergamasco che si accalorava nella discussione ma senza spazientirsi, anzi, sempre più interessato ad ascoltare. Tutti poi guardarono in volto il signore dalla camicia bianca che, vistosi così osservato comprese che ci si attendeva da lui il prosieguo del racconto della crescita dello sposo. E lui, narratore sul campo, godendo della conquistata fama, così continuò: “Mentre gli altri andavano nell’acciaio, il futuro sposo, chissà, quasi come fosse un destino segnato, lo mettemmo in una botte piccola, la sua culla di legno, e lì lo tenemmo per sei mesi, a fermentare e ad affinarsi. Poi lo mettemmo in bottiglia per altri due anni e mezzo e mo’ eccolo qua il signorino, che va sposo alla sua sposina”. “Scusate, ma che nome tiene questo sposo ? A me me l’hanno pure detto ma non l’ho capito, ho fatto finta di capire ma, devo dire la verità, non ho capito” disse un po’ vergognandosi un’altra signora. “E grazie che non l’avete capito, signora mia, quello è un nome difficile che gli volle dare il papà che, voi lo sapete come lo sappiamo tutti quanti, è persona istruita che i libri non solo se li legge a colazione ma poi li scrive pure; quello è professore all’Università, non ve lo dimenticate e pure dico io “tu mo’ sei professore all’università e scrivi i libri e sei sempre gentile e cordiale con tutti quanti noi e non hai messo superbia e sei un tipo alla mano, embè ci stanno tante mezze calzette che a te ti dovrebbero solo . . . . e questi si credono chissà chi, e loro qua e loro là . . . . “. “Sentite” interruppe la signora “ e voi vi state arrabbiando inutilmente, questo è un giorno di festa, è uno sposalizio e voi vi arrabbiate, e che è, e non lo sappiamo che persona è il professore, e voi ce lo dovete dire; sentite qua signori si nasce; piuttosto ci volete spiegare ‘sto nome o no !”. “Signora mia avete proprio ragione, mo’ mi stavo facendo prendere la nervatura”. “La nerva che ?” disse il signore bergamasco che oramai era a pieno titolo nel crocicchio dei conversatori stabili. E, quasi a debita copertura di ruolo, intervenne nuovamente il giovanotto che aveva già squarciato il cono d’ombra dell’accortenza. “La nervatura” cominciò a dire assumendo il piglio del maestro che non si rincresce di spiegare l’ovvio al più recalcitrante dei suoi scolaretti “è quella cosa che ti viene quando ti tocchi i nervi. E uno si tocca i nervi quando si arrabbia e uno si arrabbia quando vede le cose che vanno storte e invece dovrebbero andare diritte perché se andassero diritte staremmo meglio tutti quanti. Quindi uno si tocca la nervatura quando vede le cose storte”. Il signore bergamasco annuì e con lo sguardo, muto portavoce della compagnia oramai affiatatasi, chiese al narratore di proseguire e di svelare, finalmente, il nome dello sposo. “No, tranquilli tutti quanti, la nervatura già mi è passata perché oggi è festa. Dunque, dicevo, il padre dello sposo, quando fu il battesimo disse che la creatura si doveva chiamare con un nome che doveva significare che il figlio doveva crescere come gli antenati avevano fatto crescere il nonno e il papà cioè mettendolo nella culla di legno e non avendo timore di farlo affinare anche per più di tre anni”. Queste ultime parole furono pronunciate con marcata ed eccessiva lentezza dacché il narratore, così parve, subitaneamente dovette forse ricordarsi di qualche agente che concorse a spezzare il modo di portare all'apice delle proprie qualità i grandi vini bianchi campani, e, con lo stesso indice adoperato prima, questa volta in tono accusatorio, si rivolse al signore bergamasco e guardandolo diritto negli occhi, l’indice contro, gli chiese: “Ma voi avete detto che siete di Bergamo, ma allora siete parente di un certo Gino ?”. “Signore, ma che si crede”, rispose un po’ sulla difensiva l’orobico ospite “che Bergamo è come Atripalda, un piccolo paese !?! Bergamo è una grande città, mica siamo tutti parenti, mica ci conosciamo tutti, io questo Gino“ deglutì un paio di volte “neanche lo conosco. Mica è uno che scrive di vini ?!?”. “E vedete se questa nervatura non me la fate venire un’altra volta proprio Voi, caro signore di Bergamo. Voi dite che non conoscete questo Gino però, mi chiedete Voi a me se è uno che scrive di vino. Sì, guarda un po’, sì, è proprio quello che scrive di vini e che tanto che ha fatto, tanto che ha scritto, tanto che ha parlato con tutti quanti e usciva pure per la televisione, al nonno dello sposo, praticamente, non che glielo impose proprio, questo no, ma praticamente, nei fatti, lo spinse a pigliare i bianchi e a metterli pronti l’anno dopo”. “Ma perché” aggiunse incautamente l’orobico ospite “i bianchi voi quando ve li bevete ?”. “La sposa, la sposa, la sposa” questo allegro, reiterato vociare scoppiettò nel cortile e pose provvida interruzione ad una conversazione che si animava e si scaldava un po’ troppo. Un giovanottino impertinente si avvicinò al furgoncino finestrato dove viaggiava la sposa ( guai a parlare di carrozza con il papà della sposa; fortemente arrabbiandosi avrebbe ringhiato: “ in carrozza ci mettete il fiordilatte, non mia figlia “ ), buttò lo sguardo sulla sposa e gridò “ Ma è nuda !!! “. Certo, figlio mio, e come vuoi che sia la mozzarella di bufala, quella vera, quella ottenuta da solo latte di bufala al pascolo, con la sola aggiunta di caglio e sale: nuda, figlio mio, castamente e naturalmente nuda. Diffida di chi la macula con pomodoro, olio e basilico, ma ancor più diffida di chi la porta in cottura. No, figlio mio, la mozzarella è come la verità: nuda e cruda. Si formò un breve corteo per accompagnare l’immacolata sposa nel tempietto dedicato alla celebrazione del matrimonio e fuori, nel cortile, si attardò quel gruppetto che stava accalorandosi a proposito dei grandi vini bianchi campani. “E allora, insomma, si stanno sposando e ancora non sappiamo come si chiama lo sposo “ disse, quasi supplice la signora “ce lo volete dire, sì o no ?”. “More Maiorum, signora mia, More Maiorum si chiama. Significa secondo le usanze dei nostri padri, e mo’, per piacere non mi fate aggiungere niente altro, il matrimonio si sta celebrando e io mi commuovo e lasciatemi stare“ così dicendo, il prode narratore si defilò e trovò un posticino buono per assistere all’officio. La mozzarella di bufala, nuda e cruda, nella sua sensuale rotondità fu portata sul desco e l’officiante cominciò a tagliarla a fette. Copiose, dalle fette, sgorgarono bianche lacrime di latte: giubilo e non dolore. Gioia per il palato. Il Fiano More Maiorum del 1997 fu versato negli idonei calici e lo si bevve come conviene, godendo dei colori e dei profumi, ancor prima che dei sapori, complessi e sublimi, al palato. La cerimonia proseguì ed alla fine tutti convennero che era matrimonio da farsi: felice e perfetto. E l’augurio fu che, naturalmente, giorno dopo giorno altro latte di bufala giungesse al casaro per fare la mozzarella e anno dopo anno altre uve fiano giungessero a Mastroberardino dai propri vigneti per essere poste sei mesi in barrique a fermentare ed affinare, per proseguire poi in bottiglia per altri due anni e mezzo l’affinamento. E tutti, ma proprio tutti, anche i forestieri, battevamo le mani e, gioiosi dicevamo “ Viva gli sposi “.

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